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L’Argentina del 1978 non era solo la terra di Mario Kempes e dei Mondiali di calcio. Era anche il Paese della dittatura dei generali e di Jorge Videla. E dei desaparecidos. Era anche la terra del Rugby Club La Plata, un campionato nazionale vinto nel Seven (disciplina olimpica dal prossimo anno) e di 17 giocatori uccisi dal regime senza nessuna pietà, 17 ragazzi innamorati della libertà più della loro stessa vita.
Delle storie dei 30 mila argentini scomparsi,eliminati, vaporizzati dalle orde sanguinarie di Videla, gettati nel vuoto dai “voli della morte”, non si seppe nulla per molti anni. Troppo forte la consegna del silenzio, troppo debole (o silenziata con brutale disumanità) la voce di chi si opponeva. La storia (vera) del Rugby Club La Plata, invece, è venuta fuori grazie alle parole dell’unico sopravvissuto, Raul Barandiaran. Il sopravvissuto e lo scrittore, perché le parole dell’architetto, argentino di La Plata, una delle città più colpite dalla dittatura dei militari, sono diventate un racconto (“Mar del Plata”), appassionato e struggente, dello sceneggiatore dei “Cento Passi”, Claudio Fava, un padre ucciso dalla mafia e tanta dimestichezza con l’orrore e l’insopportabile peso dei silenzi. E ora sono uno spettacolo teatrale, che dal 4 al 22 novembre andrà in scena al Piccolo Eliseo, a Roma.
Raul racconta al mondo perché i suoi 17 compagni di squadra non ci sono più. Racconta perché essere militanti del variopinto mondo della sinistra argentina, in quegli anni, era un peccato mortale. E racconta come, mentre Kempes segnava gol a grappoli e vinceva i Mondiali, il mediano di apertura Otilio Pascua veniva ritrovato nel fiume con le mani legate dietro alla schiena e un foro di proiettile in testa. Aveva appena compiuto 17 anni.
L’unica colpa di quel ragazzo, capelli al vento e gambe forti come alberi, era di aver simpatizzato per il movimento studentesco, di non aver taciuto, di aver fatto sentire la propria voce, in un mondo dove anche i silenzi parlano. È una storia di morte, ma anche di rinascita. Senza mai lasciare il campo da rugby, “perché mica potranno ucciderci tutti”, si raccontavano i compagni tra di loro, per farsi coraggio tra le macerie dell’umanità. Così, dopo il ritrovamento dell’amico ucciso, il La Plata si ritrova in campo. Per giocare e vincere. Ma soprattutto per ricordare il compagno che non c’è più. Il minuto di silenzio prima della partita è interminabile: l’arbitro fischia l’inizio dell’incontro, ma i ragazzi rimangono immobili, fieri e uniti per altri nove minuti. Quei dieci minuti di silenzio cambieranno per sempre le loro vite. L’ultima partita la giocheranno in uno stadio gremito, che grida “viva la libertà” in faccia ai colonnelli. Li uccideranno tutti, tranne uno, senza riuscire a spegnerne il ricordo, l’esempio, il coraggio.
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