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Da Singapore in Vietnam, ad Ho Chi Minh City, la Saigon di una volta, quando c’erano gli americani. In aereo dormo pesantemente. Arrivo con la pioggia, ecco il Vietnam con il cielo grigio, ecco Ho Chi Minh. Sceso dall’aereo iniziano le logiche burocratiche che in un paese ancora comunista sono la base per il funzionamento di tutto. Il Visto non dovrebbe interessarmi, perché in quindici giorni vado via. Faccio la fila e quando è il mio turno, faccio vedere il biglietto di uscita che mi porterà in Cambogia. Ok tutto fatto posso andare. Ritiro il bagaglio che arriva fra i primi e mi dirigo al check-in perché ho un altro volo per Hanoi, nel regno dei vietcong. Ma dov’è? Parlare inglese per loro non è il massimo ma noto l’impegno. Mi dicono che devo andare fuori, ma come, devo fare il check-in. Un tassista vuole soldi vietnamiti o dollari americani per accompagnarmi al check-in. Poi capisco che devo andare un po’ più in là, prendo un carrello che sembrava stesse aspettando me e via verso il banco VietJetAir. Devo liberarmi dello zaino grande ma allo stesso tempo non vorrei che si perdesse un’altra volta come successo al mio ingresso in Asia, a Singapore, così raccomando l’addetto al check-in, che stavolta è un ragazzo, spolverando una battuta che avrei sempre voluto dire: “Don’t lose my backpack” (non perdere lo zaino). Il ragazzo mi chiede cosa c’è dentro, io gli rispondo “There are the dirty clothes of my boss” (ci sono i vestiti sporchi del mio capo). Ho sempre sognato dire questa frase. A quel punto lui non risponde, forse non aveva mai visto Pulp Fiction, io rido, mi dà la carta d’imbarco, saluto e vado via verso i nuovi controlli dove mi fanno togliere anche le scarpe. Passati gli ennesimi controlli, attendo il nuovo imbarco sul volo per Hanoi. Arrivo ad Hanoi in ritardo ma siamo partiti pure in ritardo. L’aeroporto di Hanoi è deserto. Vado fuori cercando di scovare il ragazzo dell’Hostel che sarebbe dovuto venire a prendermi. Immaginavo un ragazzo con il cartello con scritto il mio nome ma invece niente, il nulla, il deserto. Mi hanno lasciato lì. C’è un vento freddo fastidioso ed io sono in bermuda. Non ho soldi cash, devo prelevare. Ma dove? In aeroporto non si vede nessun bancomat. Così chiedo a qualche tassista se permetteva pagamento con la carta. Faccio vedere la mia carta Mastercard e l’altra con circuito Cirrus che ha sempre funzionato in Sud America. I tassisti hanno solo Visa. Bene. Tutto questo con molta difficoltà. Non era il mio inglese il problema, ma il loro. Per loro l’inglese sembra essere solo la lingua del nemico, americano, ricordando i trascorsi vietnamiti negli anni settanta. Non lo conoscono ma usano Google translate audio per farsi capire. Incredibile. Un tassista si offre di accompagnarmi ad un bancomat che si trova verso il centro e che avrebbe potuto aiutarmi. Così è infatti, riesco a prelevare e farmi accompagnare all’hostel. Pago, ringrazio il tassista ed entro all’Hostel facendo notare che nessuno è venuto a prendermi. Alla reception, se la ridono e si scusano. Mi sistemo nella mia camera e dopo un po’ esco a mangiare qualcosa. Già sul taxi arrivando nel centro della città vecchia, mi ero accorto dell’immenso caos del traffico, generato da milioni di ciclomotori (motorbikes) impazziti che sfrecciano suonando il clacson. Per un attimo mi è sembrato il Peru ma forse è molto di più. Qui è davvero tutto più selvaggio. E fra i motorbikes, molti lo sono per lavoro come mototaxi. Con Uber o Grab, si sono creati un’opportunità di lavoro, che li allontana certamente dal commettere crimini, altro che le nostre proteste dei tassisti in Italia. La conseguenza è che in questa parte del sud est asiatico la criminalità è pressoché assente. La gente è gentile, ti aiuta se hai bisogno. A nessuno interessa la tua fotocamera o la tua carta di credito. Forse anche per questo gli europei preferiscono l’Asia ai paesi del Centro e Sud America. Qui sei libero, puoi fare quello che vuoi. Puoi goderti la tua vacanza senza allarmi. La politica non ti deve interessare, a quella ci pensa il Partito Comunista, unico partito ammesso dalla legge. Ma il Vietnam resta un paese aperto al mercato. Praticamente tutti hanno uno smartphone, anche persone di cui normalmente non te lo aspetteresti. Ad Hanoi, nonostante la dominazione francese per quasi un secolo, non si vede molto in giro riguardo a palazzi storici. Pensavo di vedere più segni architettonici del dominio francese invece a parte il teatro, la chiesa di San Giuseppe e qualcos’altro, non ho visto molto. In città passa un treno, due volte al giorno, in serata, in mezzo alle case. Tutto il giorno le persone delle case vicine vendono frutta o altri generi alimentari seduti sui binari. Alla sera si toglie tutto perché passa il treno e neanche va piano. Una signora gentilissima mi ha dato un bigliettino con gli orari dei treni. Ormai è diventata una attrazione turistica.
L’indomani chiedo un passaggio ad un mototaxi o come li chiamano qui motorbikes, che per 60 000 Dong mi accompagna a comprare una sim card (80 000 Dong). Stare dietro questo pazzo spericolato è stata un’esperienza di vita. Controsensi, passaggi con semaforo rosso, ovviamente tutti e due senza casco. Io dietro facevo le foto alla gente. Sulla strada è una guerra fra motorini, a chi è più sveglio, più scattante, a chi trova il varco giusto fra le auto in coda, e poi ovviamente il concerto dei clacson non può mancare. Noto subito che molti sullo scooter guardano anche il telefono oltre che a guidare, da arresto, e per di più anche i camion in città fanno sorpassi sempre con il clacson. Sui motorbikes si trasporta di tutto, il concetto di ingombrante è un concetto molto labile. In Vietnam le regole sono quelle di non avere troppe regole, soprattutto in città mentre si guida. Tutto è lasciato all’umanità della gente che sicuramente è tanta. Il vero coraggio sembra attraversare la strada, sembrerebbe un’impresa, invece è facilissimo, basta buttarsi nel traffico, saranno i motorbikers ad evitarti. Se resti fermo attraversando la strada, muori. Altra cosa particolare che ho notato sono i topi che vengono quasi rispettati quando si presentano nelle case dei vietnamiti. Ad Hoi An, un topo entrò nella hall della guesthouse, mentre parlavo con la proprietaria, che tranquillamente mi disse “ah ma in Vietnam è una cosa normale che un topo passeggi per la casa”. Ok! Adesso mi ha rassicurato. La stessa cosa mi era capitata ad Hanoi, in un hostel fra le risate dei presenti. Merita una visita il Mausoleo dedicato ad Ho Chi Minh, che si trova in una grande parco dove era presente anche la residenza ufficiale e privata del leader vietnamita. Paragonando Hanoi e tutto il Vietnam a Singapore, c’è un abisso di differenza. Qui è tutto molto più sporco di Singapore, che dietro la sua apparente somiglianza con la Svizzera non è nata ricca, e per raggiungere questa dimensione ha dovuto faticare. Ma il Vietnam resta un paese affascinante, dove non si avverte la presenza dello Stato e dei divieti e di certo si merita un mio ritorno in futuro.
20 dicembre 2017 ©nadur.net
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